Prigionieri

Dopo la “rotta di Caporetto”, dodicesima battaglia sull’Isonzo, circa 300.000 soldati italiani furono fatti prigionieri. A seconda se catturati dai tedeschi o dagli austriaci o dagli ungheresi, finirono nei rispettivi campi di prigionia dove, tra stenti e malattie ne morirono circa 100.000. Gli stenti, la fame, il freddo e le malattie (prima fra tutte la tubercolosi) furono le principali cause di questo grande numero di decessi.

Si stima che i soldati catturati, tra il 1915 e il 1918, furono circa 600.000. La maggior parte venne portata a Mauthausen (località tristemente famosa anche durante la Seconda Guerra Mondiale), a Theresienstadt (Boemia), a Rastatt (Germania meridionale) ed a Celle (vicino Hannover).

Nel complesso, le condizioni nelle decine e decine di campi di prigionia erano estremamente difficili, perché l’Italia fu l’unica nazione a non voler inviare aiuti di sostentamento per propri soldati, a differenza di tutti gli altri paesi belligeranti. La sopravvivenza nei campi, specialmente per i graduati e la truppa, era condizionata dall’arrivo dei pacchi che, tramite la Croce Rossa, vari enti e comitati assistenziali e le stesse famiglie inviavano periodicamente ai prigionieri. Il trattamento per gli ufficiali era lievemente più favorevole, anche perché non erano costretti al lavoro forzoso e alle pene corporali, cui erano sottoposti gli altri soldati.

Lo stesso Baruzzi, catturato il 19 giugno dagli ungheresi durante la battaglia del “Solstizio”, fu avviato in prigionia a Dunaszerdahelj nel Regno d’Ungheria e poi a Bad Geltscheberg da dove tentò inutilmente la fuga, evadendo per due volte e rientrando infine in patria al termine del conflitto, precisamente il 16 novembre 1918.

Con il crollo dell’impero austro-ungarico i prigionieri vennero pressoché abbandonati a sé stessi e, dai primi di novembre del 1918, iniziò il lento e caotico rientro dai campi di prigionia del nemico sconfitto. Per i prigionieri in mano tedesca, nonostante la cessazione delle ostilità l’11 novembre, il ritorno fu più lungo e maggiormente ordinato.

Nella documentazione raccolta vi sono anche testimonianze, datate 20 e 21 novembre 1918, relative alla sistemazione degli ufficiali italiani nel campo tedesco di Halle (Offizierslager) , situato nella Sassonia, sul fiume Saal non distante da Berlino. Il campo, che accolse fino a 900 ufficiali per lo più italiani, fu soggetto a una rigida disciplina imposta da un attempato colonnello prussiano che vessava gli italiani. Servì l’intervento dell’allora nunzio apostolico in Baviera, Eugenio Pacelli, futuro Pio XII, a ristabilire un comportamento quantomeno umanitario nei confronti dei prigionieri.